Autoritratto (1960)

Autoritratto, in Ritratti su misura di scrittori italiani: notizie biografiche, confessioni di poeti, narratori, critici, a cura di Elio Filippo Accrocca, Venezia, Sodalizio del Libro, 1960; poi in W. Binni, La tramontana a Porta Sole cit., edizione 1984 e successive.

Autoritratto

Sono nato il 4 maggio 1913, a Perugia, la città dei miei ricordi e dei miei affetti piú profondi: ché se in altre (Pisa, Pavia, Bolzano, Heidelberg, Roma, Lucca, Genova, Firenze, dove attualmente vivo[1]) ho passato complessivamente molti anni della mia vita, Perugia rimane pur sempre il luogo ideale della mia vicenda di uomo e di scrittore e ad essa si legano – o cosí mi piace pensare – le stesse mie vocazioni piú vere, come quella all’intenso, che è la prima parola tematica della mia esperienza vitale e della mia personale poetica (non mi attrae una bellezza che non sorga da un’esperienza sofferta, una serenità senza interiore conquista e senza vibrazioni elegiache, un equilibrio che non presupponga dinamica tensione di forze). E a questa naturale e irresistibile preferenza mi piace far corrispondere le prime sollecitazioni della mia città, dei suoi paesaggi piú severi, della sua bellezza solenne e invernale, del suo possente equilibrio di piani e di forze naturali e architettoniche, e fin del suo clima aspro e intransigente, con la sua tramontana che taglia la faccia e stimola l’animo e la fantasia a impegni, e sogni profondi. In quella città ho fatto le mie prime scelte decisive (e magari a volte rischiose e avventate fino al gusto caparbio del no per partito preso: con il provvidenziale compenso poi dell’astuzia inconsapevole dell’ingenuità che sconvolge i piani sottili dei furbi), ho iniziato i miei incontri con gli autori piú congeniali e con gli amici piú sicuri (primo fra questi Aldo Capitini), con l’attività letteraria e con la passione politica (esercitata dalla cospirazione antifascista sino all’impegno di organizzatore di partito e di rappresentante dei socialisti umbri alla Costituente). E a Perugia in gran parte ho scritto o pensato i miei libri, sin da quella Poetica del decadentismo italiano (1935-1936) che fu insieme il frutto precoce della mia impostazione metodologica e del mio giovanile fervore critico e morale, fra l’utilizzazione della lezione dei miei maestri pisani (Momigliano e Russo) e una volontà di battaglia antiretorica a favore di un’Italia europea, e che suscitò interessanti discussioni di «letterati» e critici (Falqui, Gargiulo, Solmi, Momigliano, Contini, ecc.) e qualche rabbiosa reazione o sottile denuncia da parte di organi ed esponenti della «cultura» ufficiale. Il mio impegno di scrittore si è svolto poi (fra le occasioni diverse della vita militare e politica della guerra, della liberazione, e l’attività professionale esercitata prima all’università per stranieri di Perugia e poi sulle cattedre di letteratura italiana di Genova e Firenze) nella critica militante (specie con la collaborazione a «Letteratura») e nella costruzione di libri e di saggi che sviluppavano le mie tendenze metodologiche nell’interpretazione di singole personalità (Alfieri, Leopardi, Ariosto, De Sanctis, Carducci, Parini, Foscolo, Della Casa, ecc.) o di periodi letterari (soprattutto il Settecento preromantico e neoclassico), mentre, in questi ultimi anni, un dovere di «pubblica utilità» culturale mi sottoponeva alla fatica di una rivista («La rassegna della letteratura italiana») tante volte maledetta per il tempo che mi sottrae, ma anche amata per l’occasione offertami di collaborare concretamente con tanti giovani, e meno giovani, amici, e specie con i miei ottimi allievi genovesi. Il significato, l’importanza della mia opera, del mio lavoro? A me (e non certo per modestia, ma per una innata e crescente scontentezza che mi rende a volte «ingegnoso nemico di me stesso», pur nell’ansia e nella speranza, un po’ contraddittoria, di nuovo e migliore lavoro) riuscirebbe piú facile indicare ciò che non mi soddisfa e la sproporzione fra ciò che vorrei e ciò che ho fatto. Comunque, per la testimonianza degli altri (dopo il credito molto elevato aperto sul mio conto da Momigliano nella sua recensione al primo libro del «giovanissimo» Binni), meglio di ogni altro mi pare abbia colto il possibile valore della mia critica Claudio Varese in un capitolo della sua Cultura letteraria contemporanea, Pisa, 1950, e in un saggio, Vita e poesia («Criterio», 1956), che si integrano nel rilievo della mia tendenza critica, volta, piú che ad un immobile giudizio di poesia e non poesia, alla ricostruzione della nascita della poesia e della sua esistenza dinamica entro l’esperienza vitale, culturale, politica, letteraria delle personalità creatrici, nella tensione della loro poetica e della poetica del loro tempo: una posizione di concreta interpretazione storico-critica strenuamente esercitata sino al recupero dei valori integrali, personali e storici, della parola poetica (in netta distinzione dalle forme deteriori di un sociologismo contenutistico e di un tecnicismo formalistico), la cui validità almeno programmatica io non posso naturalmente che sottoscrivere con tutta intera la mia firma.


1 Ciò vale per l’anno 1960 cui risale questo scritto. Dal 1964 vivo a Roma nella cui Facoltà di Lettere e Filosofia tuttora insegno (nota edizione 1984).